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Archivio anni 1968/70

sessantotto e dintorni

 

Lolium (ovvero, la mala erba)

Era un territorio ed una Milano pre-Pisapia, pre-Bossi, pre-Berlusconi e preCraxi. Qualcosa che è difficile immaginare oggi, poichè non vi è quasi più traccia di quel mondo che il cosidetto progresso, la politica e gli stilisti hanno distrutto per sempre. Queste immagini dal sapore antico cirimandano ad un periodo magico e irripetibile per tutti.

 

Nel caos fotografico del decennio cruciale degli anni settanta racchiuso nel mio archivio c’è davvero di tutto e talora nel dipanarsi di quella produzione si rintracciano immagini coerenti con il senso evolutivo della storia di quegli anni, talaltra, nella più parte, non vi è in esse traccia di senso apparente di quella società; paiono all’opposto solo semplici trasparenze negative concepite con lo sguardo pervicace e indagatore tra i refusi di un mondo segreto e le pieghe nascoste di un divenire, a quel tempo, tutto ancora da decifrare. Il fatto è che scegliere tra le proprie cose fatte immagine e documento e il selezionare o il separare come si suole dire, il grano dal loglio (lolium, appunto), non è semplice, specie se la scelta deve operarsi come in questo caso, molto all’indietro nell’arco della propria produzione e nei meandri coinvolgenti del passato giovanile ed emozionale di ciascuno di noi. Sono stati dieci anni fotograficamente intensi, questi miei anni settanta, iniziati per il vero sul finire del 69, e terminati con l’inizio del successivo decennio e tutti vissuti per scelta umana ed ideologica perlopiù tra i reietti, gli emarginati, i diversi, gli infelici, gli ultimi della terra; tutti frutti rinsecchiti e inutili, la “mala erba” di una società fattasi velocemente opulenta ed in rapida trasformazione. Un patrimonio di immagini, le mie, fatto di centinaia di centinaia, certamente migliaia di negativi, inconsciamente fissati a futura memoria di un mondo, che con la conoscenza di noi, posteri a noi stessi, sappiamo essere quasi certamente scomparso per sempre. Frugando tra i negativi, non ho scelto volutamente la storia degli anni. Il senso della storia ed il senso della mia vita l’ho ricercato e ritrovato nelle immagini semplici, nei momenti fatti di piccole emozioni e di poesia dei ricordi; sinopie del mio tempo minimo e di quei giorni sparsi, fissati e immutabili per sempre, trascorsi negli anni. Io invece sono rimasto sempre lo stesso, ma sempre diverso.

 

attilio mina

 

Importante:Non si tratta del mio intero archivio fatto di centinaia e centinaia di immagini negative, bensì di una selezionatissima quanto di una scelta soggettiva ed arbitraria fatta tra i tanti servizi realizzati nel decennio 70/80

zingari

 

Ho visto zingari felici

Arrivavano in improvvisate stazioni di

sosta in Brianza nei pressi di Cantù, in aperta campagna o lungo le sponde del lago di Pusiano nei pressi di una antica

sorgente. Più avanti, nella estrema periferia di Milano lungo il vial Zara. Avevano

carrozzoni di legno con tanto di fumaiolo ben in vista e ruote gommate, trascinati da vecchi camion

salvati a stento alla rottamazione, scortati da vecchie tanto rombanti quanto scalcinate fuoriserie

d’annata. Tende improvvisate per far

dormire all’aperto, l’eccedenza. Dividevano il poco e cercavano girando casa

per casa, lavori per la giornata. Raccattavano pentole rotte da saldare con il

rame, coltelli da affilare e tutto quanto potesse rappresentare un minimo

valore lavorativo seppur di poco conto. I ragazzini, tanti, mezzi nudi,

correvano instancabili nei prati e si affollavano facendo ressa ogni volta che dal grosso bauletto estraevo

la fotocamera per lo scatto. Non chiedevano l’elemosina per le strade ma

offrivano il magro pranzo ahimè troppo untuoso e misterioso per il mio palato.

Si lasciavano fotografare volentieri e dividevano con me una parte della loro

giornata e della loro vita. Erano felici ad ogni mio ritorno con la busta Agfa

Gevaert con le loro piccole stampe.

 

contadini

 

Il fazzoletto al collo

«Devo tutto quello che so

agli operai e contadini

cui ho fatto scuola. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi, mentre loro mi

hanno insegnato a vivere».

Così don Lorenzo Milani scriveva in Esperienze pastorali nel 1958.

Noi giovani cercavamo istintivamente le radici forse più

autentiche della nostra cultura e le ragioni di una lotta che si voleva

rivoluzionaria nei fatti, nei riti, nella cultura propria dei rappresentanti della classe operaia e dei

contadini. Neppure immaginavamo a quei tempi che quelle tute unte e gualcite,

quei berretti di carta, quei vecchi e neri tabarri, quelle vite ruvide, talora arcaiche

e bucoliche fossero tra le ultime rappresentazioni e testimonianze poste a

futura memoria di un mondo e una cultura ora perduto forse per sempre.

 

nudi

vecchi amici

sexy varietà

operai

viaggio lungo il grande fiume

cecità

barboni & pubblici dormitori

 

I scarp de tenis.

Oggi i

pubblici dormitori si chiamano: “ case di

accoglienza” e sono strutture linde, luminose, accoglienti per decenza e minimo

conforto, ben riscaldate e talora, molto spesso, fornite di mense per pasti

caldi. Loro, gli albergati della notte, i: “senza

tetto”, i “senza fissa dimora”, i “clochard”,

gli “homeless”, come va di fino chiamarli; i nostri “barboni” di sempre. Tra di loro, nel

giorno e nelle lunghe notti trascorse insieme inseguendo i loro passi al pari

dei loro sogni nel vuoto ho trovato una umanità infinita e l’ultimo residuo di una vita venduta al caro

prezzo alla libertà.

scienza infelice

 

C’era una volta il piccolo circo..

.. e forse c’è ancora se solo avete modo di prestate

attenzione a certe piccole locandine

affisse nei giorni di festa nei piccoli paesi sparsi tra il piano e la

montagna. Ho seguito per alcuni anni il peregrinare di alcuni di questi micro

mondi dello spettacolo, composti

perlopiù da un solo nucleo familiare e da qualche raro aggregato. Erano

i circhi Zorzan, Caveagna, Macaggi. A quei tempi, nella prima metà degli anni

70 conobbi Lucia degli Elefanti, Fagiolino il ventriloquo, Mustafà il

lanciatore di fiamme, Romilde ammaliatrice di pitoni e domatrice di colombe, Sciopero, il clown; Maciste il

forzuto. C’era poi il melanconico Pino

detto anche il fachiro con il suo letto di chiodi e che spezzava catene con la sola forza dei muscoli pettorali, ovverosia del

petto. Finito il numero sotto il piccolissimo tendone, tornava ad esibirsi nelle osterie tra i contadini, barattando il suo spettacolo

per un brindisi o un fiasco di vino.

 

circhi & circhetti

ribelli

 

In Brianza e persino in

città, alle sagre si scalava l’albero della cuccagna e sul finire dell’estate

tutti a Monza, all’autodromo a cercare i posti migliori per la gara delle

Ferrari. Improvviso a sorprendere tutti, a cambiare il mondo venne il maggio

francese con la voglia del nuovo. I giovani chiedevano riforme e alle richieste

il governo sembrava annaspare e stentava nel produrre qualcosa di organico e innovativo.

Il ministro della pubblica istruzione dell’epoca, Fiorentino Sullo della

Democrazia Cristiana, presentò così sul

finire del 1968 un decreto legge di

riforma della scuola, che entrò in vigore l’anno successivo, ma bollato immediatamente

dagli studenti come il famigerato

“2 pigreco" , ricco solamente di

misure genericamente paternalistiche e

settoriali quali : un nuovo tipo di esame di maturità, moltiplicazione delle sessioni di

esame, possibilità di adottare dei piani di studio individuali, diritto di

assemblea studentesca nelle scuole superiori, eccetera”. Gli studenti si

mobilitarono per la prima volta nella storia recente della nostra scuola scendendo

massicciamente in strada in lunghi ed ordinati quanto inoffensivi cortei di

protesta. Così a Como scesero in piazza in “processione” quasi fosse la festa

della “ Madonna Pellegrina”, le caterinette

delle magistrali con i loro foulard ad acconciare le chiome, il fascio dei libri fermati a cinghia di gomma Pirelli, seguite

dai ben incappottati “spelafill” e “magutt” della Magistri, e dai “Bigatt” del setificio. Iniziava così il “mondo nuovo”. Venne poi il

tempo della creatività e dello scontro sociale, della lotta spesso

terribilmente aspra per il diritto alla

casa, ad una vita men che precaria, alla dignità, al lavoro. E davvero ci

cambiò il mondo attorno.

 

terremoto

baracche & case occupate

morire di classe

 

Morire di classe.

Vivere e morire soli, legati tra quattro altissime mura in

quegli anni tra il 1969 ed i primi anni 70. “Istituzione psichiatrica”,

“manicomio”, “astanterie manicomiali”, ecc, i loro nomi. Erano questi gli anni

del grande dibattito portato avanti da Psichiatria Democratica, movimento

d’opinione creatosi sull’onda dei movimenti studenteschi del 68, cappeggiato da

F: Basaglia e sviluppatosi a partire dal manicomio di Trieste. Difficile a distanza di tanto tempo operare

una scelta equilibrata. Rimangono comunque sempre immagini dure, forsanche sgradevoli, certamente inquietanti, tutte realizzate nelle strutture

pubbliche e religiose della Lombardia.

“ .. alla fine di

questo processo di disumanizzazione, il paziente che era stato affidato

all’istituzione perché lo curasse, non esiste più, inglobato e incorporato

nelle regole che lo determinano. E’ un caso chiuso”.F. Basaglia

 

orfanotrofio

magnann, bej, brutt

ospizio

invalidi del lavoro

handicap

Como 68

40 anni dopo

migranti como 2017

 

Il '68 fu una strana stagione. Una generazione che non aveva conosciuto la guerra, cresciuta fra le fatiche della ricostruzione, in una società chiusa, parca, laboriosa, improvvisamente esplose. Il vecchio ordine, le abitudini piccole piccole, il sogno di una vita tranquilla e modesta, i vestiti buoni della domenica, i capelli corti, le gonne morigerate, insomma i riti che presiedevano alle relazioni sociali, divennero intollerabili. Ogni giovane si guardava attorno in cerca dei propri simili, nell’attesa di una trasformazione che si percepiva imminente e che fu prima di tutto rivoluzione del modo di essere e di sentire. Chi ha vissuto quel tempo sa che la contraddizione penetrava nell’animo e rivoltava le coscienze, infrangeva i tabù, portava il conflitto nelle famiglie, fra i padri e i figli e fra madri e figlie, così come in ogni ambito sociale. Accanto alla voglia prepotente di cambiamento e di felicità bruciava la consapevolezza delle piaghe del mondo: della fame, della miseria dei diseredati, della ferocia delle guerre. Figlio di quel tempo, uscito presto di casa, vagabondo per la metropoli come per le periferie e le campagne, la giovane Mina fu presada quella grande avventura in compagnia di altri , i cosidetti “concerned”, giovani e meno giovani che, come gli amici GabrieleBasilico , walter Battistessa, Cesare Colombo, berengo gardin, solo per citarnealcuni, della fotografia fecero passione, mestiere, lotta e arte.Egli scelse di documentare quella realtà attraverso il suo occhio - la macchina fotografica - cogliendone molteplici aspetti ma soprattutto le contraddizioni laceranti, il rovescio della medaglia, la consapevolezza profonda del dolore del mondo. Guardando queste fotografie bisogna sempre ricordare che a scattarle fu un giovane ventenne di allora, non lo sperimentato fotografo di oggi, e che attraverso l’obiettivo quel ventenne creava un documento non solo del mondo com’era ma della sua stessa anima.  

Era ancora viva la vecchia società contadina, quei paesi

e quelle cascine che oggi fan parte della metropoli diffusa e che allora erano

ancora mondi lontanissimi dalle città.

Ed ecco i suoi abitanti, così lontani dall’oggi da sembrare marziani, con le

loro feste e le gioie dell’osteria e le miserie e gli stenti di vite difficili.

Intanto nelle periferie le grandi fabbriche inondavano di fumi

l’orizzonte e inghiottivano fiumane operaie alle prime luci dell’alba.Dei lavoratori Mina coglie soprattutto l’umanità, ritraendoli come persone, cercando anime, non retorica. Come fa per quelli delle campagne padane . 

L’attenzione di Mina è rivolta agli ultimi, siano questi gli anziani

negli ospizi, i barboni nei dormitori pubblici, i malati psichiatrici nei

manicomi, i bimbi negli orfanotrofi.

Sono immagini spesso dure, che inducono in chi le guarda il dolore e la pena

del fotografo che pare domandarsi che relazione esista fra questi volti

tormentati e i reperti macabri della scienza infelice di lombrosiana memoria.
Un capitolo a parte è l’esplorazione dei margini, con le donne dei

camerini dell’avanspettacolo, il mondo dei circhi di periferia, l’universo

degli zingari più o meno felici.

Se il retrobottega dell’avanspettacolo restituisce

l’immagine di una sessualità un po’ “peccaminosa” in attesa di scomparire,

 il mondo del circo accanto al gusto teratomorfico del

fenomeno da baraccone esplode in immagini di sconvolgente tenerezza come la ragazza con gli elefanti o i bambini al botteghino. Ma straordinario è poi l’approccio all’universo zingaresco, dove la

miseria e la sporcizia si alternano a lampi di felicità infantile, di libertà

sessuale improvvisa e bruciata nell’attimo.
Ed ecco il tempo della rivolta, i primi cortei, le manifestazioni.

Sono immagini in cui, dopo tanta esplorazione dell’individuale, prevale il

collettivo.

Ecco la massa dei manifestanti o la folla dei giovani seduti alla Palazzina

Liberty, la compostezza quasi sospesa nel tempo dei giovani del Movimento

Studentesco di Como.

Mina documenta il desiderio di un’intera generazione di trovare un mondo nuovo.

E sono immagini in alcuni casi epiche.

 Ben sappiamo oggi che le cose andarono diversamente e che

moltissime aspirazioni sarebbero rimaste allo stato di sogni, e altri sogni

sarebbero degenerati in errori e illusioni.

Ma fa impressione rivedere oggi quei volti sereni, calmi o assorti, determinati

alla ricerca collettiva di un bene futuro in cui quella generazione credette

con tutte le proprie forze. 
E Mina ci crede ancora, se è vero che l’ultima sezione della mostra è

quella dedicata ai migranti e ai profughi della stazione di Como che ci

restituisce una serie di ritratti indimenticabili di persone alla ricerca della

speranza.

E dopo averle osservate nelle fotografie di Mina non è possibile non sentirli

come sorelle e fratelli.

Ezio Rovida

Canzo marzo 2018