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                   Migranti  

 

Quando la storia ti passa sotto casa non puoi che decidere di incontrarla, imbracciare la tua macchina fotografica e andare a fare quello che sai fare: raccontare per immagini. Davanti a me stava passando un “Train de vie”».

 

Dopo 40 anni dall’ultimo reportage, il fotografo marianese Attilio Mina è tornato in trincea. 

 

Ha trascorso in questo caldo mese d’agosto una settimana, giorno e notte, vivendo fianco a fianco con i migranti che sono accampati in stazione San Giovanni a Como e nel parco che si affaccia verso la città. 

 

Li ha visti pregare, amarsi nelle loro tende, li ha visti ubriachi, sorridenti, impauriti, violenti. Li ha ritratti davanti ai volontari della Croce Rossa a farsi curare dai pidocchi o in fila, al momento della colazione, a spartirsi caffè e brioches. Eccoli addormentati, in bilico su una panchina, o a terra, tra topi e piccioni, in quel dormitorio di fortuna, stringendo a sè poche borse in cui hanno messo un’esistenza intera.

 

Ma soprattutto ha colto in loro la disperata speranza di passare in Svizzera, e poi di puntare in fretta verso l’Europa, quella ricca, garantendosi il lasciapassare per una nuova vita. Una promessa di benessere che l’Occidente sta pagando a caro prezzo.

 

«Guardavano in macchina e poi con la mano disegnavano il gesto del “Io sono rock”. Un’umanità in cerca di riscatto, di un’opportunità. Nessuno mi ha dato l’impressione di essere in fuga, braccato, sradicato dalla sua terra. Si trovano lì per scelta, tanto che non vogliono essere registrati come richiedenti asilo in Italia, a immaginarsi un futuro diverso, sicuramente benestante».

 

Mina in stazione San Giovani ci è entrato in punta di piedi, chiedendo il permesso per ogni scatto che si è porttato a casa. Il mattino distribuiva a quelli che son diventati i «suoi migranti» le foto che li vedevano protagonisti.. «Instaurato un rapporto di complicità e fiducia erano loro a chiedermi di scattare; orgogliosi di essere in Europa e di avere fra le mani la prova di stare per farcela». 

 

Continua il marianese: «La lingua è stata un ostacolo quasi insormontabile, ma le immagini poi ci hanno avvicinato. Io, il fotografo lo so fare solo così, scattando da 60 centimetri di distanza, con un grandangolo, vivendo la situazione. Chi con mega obiettivi si aggirava fra i migranti, fotografando a distanza, è stato a un safari fotografico, per come la penso io non ha documentato la realtà».

 

A Como Mina ha incontrato quella bellissima ragazza che aveva negli occhi i segni di una notte passata a piangere tutte le sue lacrime. L’uomo che si è fatto fotografare, ma solo accanto a un cartellone con una modella bianca: «E’ lei che voglio tre le mie braccia» sosteneva. 

 

Altri migranti negli scatti ci sono finiti brandendo con convinzione tra le mani una bottiglia di alcool, simbolo della  libertà assoluta alla quale anelano, in sfregio a ogni tabù religioso o culturale che sia. Ci è finita anche quella donna copta che si è fatta cancellare dalla fronte il tatuaggio di una croce, per non avere problemi con gli estremisti della Libia, mentre si imbarcava verso il continente europeo.

 

«In stazione ci vivono soprattutto giovani, tra cristiani copti e musulmani. Pochi bambini, tanti minorenni. Provengono per la maggior parte dal Corno d’Africa. La situazione, anche se controllata, è estremamente pericolosa e violenta. Girano droga e alcool, ma in particolare ci sono dinamiche di potere molto forti, tipiche della malavita.. Ho visto uomini, che ho chiamato “scafisti”, minacciare con lo sguardo altri migranti, rimetterli al loro posto, gestire la quotidianeità dell’accampamento. Non ho potuto che pensare siano loro a decidere quando per qualcuno arriva il fatidico giorno della fortuna, quello in cui tentare il passaggio in Svizzera».

 

Laura Mosca