io
io
logo
logo

 

gente dei campi

 

Alla sera si andava alla “Torre” da Ferri a giocare alle carte o in collina a tirare alle bocce e bere un mezzo bicchiere di nero alla spuma. Era il mondo bei boschi e dei prati, delle rogge ancora pulite, delle frasche e dei misteri delle stagioni. Era ancora negli anni settanta un mondo fatto di contadini e artigiani tolti alla terra e che parlava il dialetto. Un mondo semplice dove in fondo tutto era semplice e pulito e dove persino “lenitt” e “paulott” al “Runc grand” tiravan le bocce e bevevano insieme ridendo, bestemmiando e cantando, rimirando dalla collina un mondo che velocemente, troppo velocemente sfuggiva a tutti di mano, cambiando a tutti il destino 

 

El Mondo

  

Lo chiamavano El Mondo, perché era stato ovunque potesse, ma s’era fatto controvoglia e di forza la Spagna, prima ancora che fosse guerra per tutti. Per parte di santo di terra[i], faceva Edmondo: lo conobbi nei boschi alla torre dei Ferri[ii], ma le sere in collina alla cascina del Santo[iii], bestemmiava in dialetto, beveva il nero alla spuma, giocava alle bocce.

Per guardare il cielo cadere d’estate, andavo al Ronco[iv], in alto sul colle; ma quella volta tirai oltre giù per bosco e per prati.

Dell’ora coglievo soltanto il silenzio, il profumo inquieto del brugo, la calma dell’essere solo. Quando la strada riprese a salire, una luna gonfia come un frutto maturo occhieggiava enorme tra il fogliame sul filo di costa.

All’ultima rampa, al confine del cielo, quando anche il brusio indistinto delle voci prima lontane si faceva insistente; ecco apparire massiccio il grigiore muschiato, opaco, della cascina.

Si dicevano cose di sangue dai tempi[v]; di eresie, di roghi, di scontri e boschi violenti; che insieme facevano un presente segnato da vago timore.

Oltre il portone la corte: il pozzo profondo, gli stallàggi, i loggiati a ringhiera, l’aia ruspata, le latrine sul fondo.

Discosta la pergola d’osteria, il legno grosso delle panche, il campo da bocce tra le fronde a balcone sul colmo.

L’osteria del “Cacciatore[vi]” era una specie di covo per anime strane: contadini staccati alla terra, artigiani vincolati alle macchine, residui tutti sofferti del tempo che avanza.

Nello schianto delle bocce riconobbi El Mondo da certe bestemmie e, non mi sorprese quando, bevuto anche l’ultimo punto, si acquietò dirimpettaio alla panca, con il sangue placato.

Dal gilé tolse una senza filtro, la spezzò a mezzo e l’accese. Soffiò fumo che sapeva di paglia bruciata dopo la pioggia, poi rimase in silenzio, fermo, ad ascoltare compiaciuto i gorgoglii morbidi del corpo.

Dall’espressione contenta e sorpresa, seppi che mi riconobbe, ma all’usanza dei contadini che danno parola alla prima, richiese comunque i natali.

- “De chi sêt..?”.[vii] Non era solo un modo di dire; per avere fiducia occorreva levare le radici da terra, e lo feci.

Diede voce a Martino perché portasse, svelto, un “’mezz balòss”[viii], per due.

- “Le farebbe un po’ meglio del vino”, gli dissi, “se bevesse caffè”.

- “Sent, lasa pert ”[ix] disse El mondo, “Chi, mì sunt de cà, ‘ l sô quel che se bef ”[x].

Restammo immobili davanti ai bicchieri a godere il tepore del vento senza parlare, mentre nel chiarore indistinto, oltre l’intreccio delle robinie, il cielo andava spopolandosi di colline vicine, montagne; animandosi al cambio di parvenze notturne.

 

Il cigolìo di un carro alla stalla ci scosse.

- “Cristu, l’è questa chi la nocc?” disse El Mondo. “L’è San Lurènz, tel chi se l’è! ”[xi].

- “E’ la mezza dell’estate” Risposi. “E cadono le stelle”.

- “Né, l’è la nocc di falò” Disse lui, facendosi cupo. “Di vûs, di qui che gh’è e           gh’è no”[xii].

Risposero i soli latrati dei cani e nel fruscio del vento pareva che la boscaglia si muovesse verso di noi.

Dal fosco intorno, silenziose, si avvicinarono al legno due ombre.

- “Fate bere”, dissero subito.

Venne altro vino ed altri vetri e ne bevemmo in quattro fumando in silenzio.

Elia e Silvano, i due nuovi, mi erano di fatto coscritti, l’uno di poco giovane, l’altro più anziano: facevano quadri e tiravano le notti silenziose in collina.

Intorpidito dal vino e dal fumo misi la testa sulle braccia.

Sentii che Silvano parlava col vecchio. Sentii il vecchio rispondere con l’italiano gòffo dei campi.

- “Da bere a El Mondo” Dissi tranquillo. “Che si fa secca la gola”.

Elia bevve a sua volta d’un fiato. Restò bocca aperta e lasciò svaporare adagio, acre, l’umore acerbo del nero.

- “L’èra l’ann pasâ” proseguì El Mondo. “E in de la nocc di föch înn vegnü föra da ‘l busch…”[xiii].

- “Chi?” . Fece Elia sorpreso.

- “Cristu, l’ ûr! ” Rispose El Mondo. “E g’ ànn lasâ i oss gremâ ‘n de ‘l föch”.

- “Cagnö la maj majâ cagnö…” Proseguì il vecchio. “Ma ‘l cristian l’à semper     majà cristiani… E pelüca j oss”[xiv].

-       El Mondo, mi tenne stretto il braccio.

- “T’el sét no? ”[xv]. E mi guardò brusco.

- “Non tutto”. Risposi.

- “Gh’è pasâ ‘l giabètt sû ‘ stô cantùn spretâ di Càtar”. Proseguì il vecchio.

- “Gent che lauràva, fada aròst o squartàda su l’ ürc…”[xvi].

-       Facendosi cupo continuò.

-       “Gent che vegn indrè ‘n de ‘l temp, a finì i mestè, a mett a post i bèstì”[xvii].

Infine, quasi a cavarsi d’un groppo.

- “L’ôlter ann a ‘na bunùra de mezz agust ànn truâ pedànn ‘n de ‘l prâ”[xviii].

Versai altro vino per tutti e, guardando fisso. “Senti”.

- “Dicci tu cos’hai fatto l’altr’anno alla mezza d’estate”.

-       “Mì ghe s’èri no! ” borbottò El Mondo. “ Quj ghidün però l’à vedü, ànn vist i pedànn…”

-       “ Vox populi, vox dei…ciuè, ànn capì tüscôss…” [xix]

-       Diede una nuova, profonda boccata di fumo.

-       “La gèsa, la casìna, ul busch, j òmen, j bèstì…” Rispose “Tüscôss l’è ‘stâ fa föra daj temp de la rüina…”[xx].

-       “Ecco” Gridò Silvano. “Non c’eri… ”.

-       Soggiunse, infine. “Hai perso un mistero”.

-       “ Dicci di quest’anno”. Intervenne Elia. “Cosa ci porta la notte”.

- “Gh’è minga bisogn ch’el vègna scüri”[xxi] Rispose sicuro El Mondo.

-       “Và ben inscì ” Concluse il Vecchio. “ Ma vègnen a regulà i bèsti”.

- “Se làsa no ‘n di camp ‘l laurà a mezz! “[xxii]. Sentenziò El Mondo.

 

Ricordo quel vino. Ero troppo intontito. Lasciavo discorrere.

In quel tempo scomparso e quasi abolito, bevemmo la notte a parlare di stelle, lavori di campi interrotti in truci storie del tempo, anime perse.

Battevano a terra le ultime stelle che lasciammo le panche deserte per l’aia, al prato grande del colle.

Senza voltarci prendemmo il passo come se quella strada non l’avessimo mai fatta. In un mondo improvviso, ritornato reale, l’erba bagnata dalla notte si richiudeva sulle nostre orme.

Scendemmo al Terò senza pèsta, senza traccia, senza segni di spalle come fossimo anime morte tra i campi.

Allegri del vino ridevamo e ballavamo tra le pietre lisciate di roggia, circumnavigando, braccia aperte, le anse. Tagliammo per prati macchiati di giallo lanciando grida alle macchie, rompendo la notte e le voci rugginose delle civette. Lontano, verso Gattedo, ormai rischiarato dal chiarore incerto dell’alba, cantavano i galli. Ci eravamo messi per la strada del Vallone, e scendevamo sempre più svelti ai filari della Vignazza.

Ero stanco, e tuttavia non avevo sonno ed il passo era ancora sicuro. Ci fermammo che era giorno già fatto, su un balcone di terra a guardare la cascina di spalle.

- “La notte è passata”. Mormorò Elia.

- “E’ passata”. Risposi. “E c’è odore di terra e di latte versato”. E pensavo all’incontro, alle cose accadute e udite.

Nel controluce del mattino, tra le altre, un’ombra andava ricurva alla stalla.

- “Venite” Disse Silvano. “E’ caldo nelle mammelle, c’è latte per tutti laggiù ”.

-“No!” Disse El Mondo. “ Se def no…”[xxiii] .

-“Non si va a spezzare un lavoro iniziato!” Soggiunsi io sottovoce.

 



[i] Di nome

[ii] Torre di caccia ed antica osteria situata nei boschi tra Mariano e Figino. Oggi, residenza privata.

[iii] Cascina, chiesetta di San Martino.

[iv] In lingua: “Runc Grand”, “Ronco Grande o Castello”.

[v] La cascina fu sede di una numerosa comunità eretica aderente alla setta dei “Catari”. L’intera comunità venne sterminata in seguito alle lotte di religione dette del “Sacro Macello”. (vedasi Ignazio Cantù: Storia della Brianza, edizioni, Licinium, Erba).

[vi] Oggi non più esistente.

[vii] “Chi è tuo padre…”

[viii] Letteralmente: “un mezzo furbo, cioè speciale”. Traducibile in: “mezzo litro di vino della casa”.

[ix] “Senti, lascia perdere…”.

[x] “Senti, lascia stare… Sono di casa…So quel che si beve….”.

[xi] “Cristo, è la notte giusta..?   E’ San Lorenzo, ecco cos’è…”.

[xii] “No, è la notte dei fuochi… Delle voci, delle presenze nascoste…”.

[xiii] “Era l’altr’anno… Che la notte dei fuochi vennero fuori dal bosco…”.

[xiv] “Cristo, loro…Che ci han lasciato le ossa nel fuoco (dei roghi)… Cane non mangia cane… Cristiano mangia cristiano… Fino alle ossa…”.

[xv] “Non sai…”.

[xvi] “ C’è passato il demonio per quest’aia dei Catari… Gente al lavoro messa nel fuoco o sventrata sull’uscio…”.

[xvii] “Gente che torna, nel tempo, a finire il lavoro interrotto, a governare le bestie…”.

[xviii] “L’altr’anno al mattino del mezzo d’agosto han visto le pèsta nell’erba segnata…”.

[xix] “Voce di popolo, voce di dio… La gente ha capito tutto…”.

[xx] “La chiesa, la cascina, il bosco, gli uomini, le bestie… E’ tutto segnato dai tempi del male…”.

[xxi] “Non c’è bisogno che venga la notte…”.

[xxii] “Va bene comunque… Ma vengono certo a rigovernare le bestie… Non si lascia tra i campi un lavoro interrotto…”.

[xxiii] “Non si può!..”.